Riprendono le interviste esclusive di Altro Calcio anni ‘80-’90. Oggi abbiamo incontrato Ricardo Paciocco ex attaccante di Milan, Lecce, Pisa e Reggina.
Prima di tutto ci tolga una curiosità: quando eravamo bambini e collezionavamo le figurine Panini, venivamo incuriositi dal suo nome Ricardo, con una sola C, e dal fatto che fosse nato a Caracas in Venezuela. Ci racconta la storia del suo nome e delle sue origini venezuelane ?
Ricardo era il nome di mio nonno, molto comune in Venezuela. In realtà vengo da una famiglia un po’ particolare: mia madre era argentina, mio padre italiano, io sono nato in Venezuela mentre mio fratello in Italia. La mia nonna materna era tedesca e mio nonno era di origini inglesi. Quindi potete immaginare in quale intreccio di culture sia cresciuto. Comunque i dati che hanno sempre riportato sulla mia nascita sono sbagliati; infatti non sono nato a Caracas, ma nella città venezuelana di Valencia. Tornai in Italia quando avevo solo quattro anni.
Ora vivo a Vacri, un piccolo paese in provincia di Chieti situato tra il mare e la montagna.
Come nacque la trattativa che la portò al Milan e che bilancio fa della sua breve avventura in maglia rossonera?
Il mio avvicinamento al calcio è stato molto particolare. Fino all’età di quindici anni non avevo mai praticato questo sport infatti la mia passione, grazie anche a mio padre, era il ciclismo e passavo intere giornate a correre in bici. Una volta nel mio paese provai a giocare in un torneo di calcio e venni notato da un dirigente sportivo,Pierluigi Di Berardino, che mi portò subito nella sua squadra. Nel giro di un anno passai al settore giovanile del Torino, all’epoca uno dei migliori in Italia. In maglia granata vinsi lo scudetto Primavera e successivamente mi feci un po’ le ossa nelle serie inferiori: prima a Roseto degli Abruzzi, poi Teramo e due anni a Jesi in C2 dove riuscii a fare ottime cose e a diventare il cannoniere della squadra. In quel periodo vinsi anche il Guerin d’oro come migliore calciatore della categoria. Dopo quelle stagioni importanti si fece avanti il Milan e così iniziò la mia avventura a Milano, che per un giovane come me fu un grande trampolino di lancio. In maglia rossonera nel mio ruolo avevo tanta concorrenza; infatti c’erano attaccanti come Blissett, Damiani, Serena, Jordan e Incocciati. Così nel novembre 1983 decisi di accettare l’offerta del Lecce in Serie B.
Nel novembre 1983 passò al Lecce con cui giocò fino al 1987, per poi ritornare, dopo un solo anno a Pisa, nella stagione 1988/89. Quali sono i ricordi più belli legati alla esperienza salentina? Quale considera il gol più importante realizzato in maglia giallorossa?
Andare a Lecce fu la mia fortuna. Nel 1984/85 con Fascetti in panchina vincemmo il campionato e fummo promossi in Serie A. Io ero il cannoniere della squadra e per me fu davvero un onore aver contribuito con i miei gol a quella storica promozione. Per quanto riguarda la mia rete più importante in maglia giallorossa, credo sia stata quella realizzata nella Serie A 1988/89 nello scontro decisivo per la salvezza contro il Torino. Era l’ultima partita del campionato e riuscimmo a vincere con il risultato di 3-1. Io realizzai proprio la terza rete con un bel pallonetto da fuori area. Forse non il gol più bello della mia carriera, ma sicuramente quello più “pesante” che permise alla squadra di giocare un altro campionato in A.
Nel 1989 giocava con la Reggina e in una partita contro la Triestina, fondamentale per la promozione in A, realizzò un calcio di rigore decisivo all’ultimo minuto ricorrendo al gesto tecnico della rabona. Un gesto del genere era il frutto di quello che provava in allenamento o era semplicemente istinto?
A Reggio Calabria andai verso fine carriera e mi trovai benissimo. Per quanto riguarda la rabona era una giocata che facevo spesso, ma non avevo mai pensato di utilizzarla per calciare un calcio di rigore in una partita ufficiale. Per me quella fu una sfida vinta con il nostro mister Bruno Bolchi; infatti in allenamento tiravo i calci di rigore modificando molto spesso il mio modo di calciare, facendo ricorso anche alla rabona. Una volta Bolchi mi rimproverò affermando che avrei dovuto calciare i rigori in maniera più seria perché ci dovevamo allenare per le partite ufficiali dove era tutto diverso. Io invece volevo dimostrare a Bolchi che per me tra allenamento e partita ufficiale non c’era troppa differenza e certi gesti tecnici potevo realizzarli tranquillamente anche in sfide importanti. Così all’ultimo minuto di quella famosa gara contro la Triestina sul risultato di 1-1 decisi di calciare il rigore con la rabona e riuscimmo a vincere. Fu sicuramente un rischio, ma ero talmente sicuro di segnare che andai sul dischetto tranquillo. Ancora oggi sono ricordato per quel gol e quindi sono davvero soddisfatto per quella scelta.
L’impressione è che uno con le sue qualità tecniche avrebbe potuto fare qualcosina in più. Cosa le è mancato per la consacrazione definitiva in Serie A?
Le mie qualità migliori erano la tenacia e la determinazione. Come ho già detto iniziai a giocare a calcio molto tardi e in pochissimi anni passai da giocare in un torneo amatoriale a far parte del grande settore giovanile del Torino. Non ho rimpianti, anzi sono felicissimo di quello che sono riuscito a fare nella mia carriera. Molto spesso ho avuto compagni di squadra superiori a me dal punto di vista tecnico, ma inferiori dal punto di vista caratteriale. La mia fortuna è stata proprio quella di essere forte a livello mentale, risorsa fondamentale se vuoi fare il calciatore ad alti livelli.
Di cosa si occupa attualmente?
Quando ho smesso di giocare ho avuto la fortuna di conoscere un colonnello dei Carabinieri con il quale ho collaborato in un’agenzia investigativa. Successivamente ho rilevato questa agenzia e ora mi occupo di investigazione e sicurezza nella zona di Pescara e Chieti. Da due anni collaboro anche come supervisore negli impianti da sci a Passo Lanciano-Maielletta.