Per le interviste esclusive di Altro Calcio anni ‘80-’90 abbiamo incontrato Andrea Icardi, ex centrocampista di Milan, Atalanta, Lazio e Verona.
Lei è cresciuto calcisticamente nel Milan, squadra con cui ha giocato fino al 1986. Quali sono i ricordi più belli legati all’avventura in maglia rossonera?
Il mio più grande sogno era sempre stato quello di giocare nel Milan, ero un tifoso milanista sin da bambino. Pensate che a soli due anni avevo già la maglia rossonera.
Tra i ricordi più belli c’è sicuramente il mio primo derby a San Siro, avevo diciotto anni e fu un’emozione incredibile giocare con ottantamila spettatori. Il mio esordio avvenne l’anno precedente nella partita contro l’Atalanta.
Un altro ricordo a cui sono legatissimo è il gol siglato contro l’Inter nella semifinale di Coppa Italia 1984/85. Realizzai la rete del 2-1 a cinque minuti dalla fine, fu un’esplosione di gioia. Ancora oggi ricordo il boato dei tifosi rossoneri.
Come nacque la trattativa che la portò a giocare nell’Atalanta? Fu difficile lasciare il Milan dopo aver giocato per tanti anni in rossonero?
Il Milan era interessato all’acquisto di Donadoni, un vero campione. L’Atalanta era disposta a cederlo ma, oltre al conguaglio economico, cercava anche alcuni calciatori rossoneri. Il Milan consegnò ai bergamaschi una lista di otto giocatori cedibili, tra cui c’era anche il mio nome. Mister Sonetti volle fortemente il sottoscritto e Incocciati.
Lasciare il Milan fu un colpo al cuore, inutile nasconderlo. Era la squadra che amavo. Ma la mia carriera andava avanti, e dovevo pensare a migliorare e mettere in mostra le mie qualità anche in altre piazze.
Con l’Atalanta ha vissuto una grande stagione in B con la promozione e l’incredibile semifinale in Coppa delle Coppe. Crede che con un pizzico di fortuna in più quella squadra avrebbe potuto vincere quella competizione?
Con Mondonico, un grande allenatore, giocammo una stagione strepitosa. La forza di quella squadra era soprattutto il gruppo, eravamo davvero tutti amici.
In Coppa delle Coppe fummo protagonisti di una fantastica cavalcata , facevamo prestazioni che andavano anche oltre le nostre reali potenzialità. In semifinale ricordo soprattutto la gara di ritorno giocata a Bergamo. C’era il pubblico delle grandi occasioni, e noi scendemmo in campo con grande concentrazione e determinazione, con la consapevolezza di poter raggiungere la finale. Fummo protagonisti di un primo tempo strepitoso, e passammo in vantaggio su calcio di rigore. Dopo la prima frazione di gioco eravamo qualificati. Nella ripresa i belgi aumentarono il ritmo e trovarono un grandissimo gol, pescarono il cosiddetto jolly. Noi continuammo ad attaccare, ma fummo sfortunati, e ci fu negato un rigore nettissimo. Negli ultimi minuti ebbi problemi ad un ginocchio e fui costretto ad uscire, giocavamo in dieci e il Malines siglò la rete del 1-2. Un vero peccato perché credevamo fortemente di poter raggiungere quella finale.
Ci fa i nomi dei tre compagni di squadra più forti con i quali lei abbia mai giocato? Quali sono stati gli allenatori a cui è maggiormente legato e che gli hanno trasmesso qualcosina in più durante la sua carriera?
Faccio sei nomi: tra italiani e tre stranieri. Tra gli italiani sicuramente Baresi, Virdis e Maldini.
Franco Baresi era davvero un fenomeno, un difensore eccezionale che dava alla squadra grande sicurezza.
Virdis era un attaccante dotato di un’intelligenza tattica incredibile, non era abile solo come bomber ma anche come uomo assist. Sceglieva sempre l’opzione migliore, in quegli anni per il Milan è stato determinante.
Quando ero in maglia rossonera Maldini era ancora giovanissimo, ma già si vedeva che aveva tutte le caratteristiche per diventare un fuoriclasse. Un talento incredibile.
Per quanto riguarda gli stranieri faccio i nomi di Wilkins, Stojkovic e Ruben Sosa.
Wilkins per me era un esempio, in campo aveva grande dinamismo e senso della posizione. Era un vero combattente che mi ha insegnato tanto. Tra noi c’era un bellissimo rapporto anche fuori dal rettangolo di gioco, cercai di aiutarlo ad ambientarsi perché in quegli anni per un inglese non era affatto facile giocare in una realtà come quella italiana.
A Verona ebbi l’onore di avere come compagno di squadra Dragan Stojkovic. Purtroppo arrivò in Italia troppo tardi e giocava praticamente con una sola gamba, perché l’altra era stata operata e non riuscì mai a recuperare la forma migliore. Ma quello che faceva, anche in quelle precarie condizioni fisiche, era qualcosa di incredibile. Sinceramente non avevo mai visto nessuno così forte tecnicamente, quando lo vedevo giocare mi impressionava.
Alla Lazio incontrai Ruben Sosa, attaccante basso di statura tutto sinistro con un tiro devastante e grande abilità nel dribbling.
Impossibile scegliere solo pochi allenatori, tutti quelli che ho avuto hanno contribuito alla mia crescita professionale e umana. Ho avuto il piacere di essere allenato da gente come Giacomini, Radice, Galbiati, Castagner, Liedholm, Mondonico, Sonetti, Fascetti, Materazzi e Reja.
In seguito ha vissuto in Australia, dove è stato sia calciatore che allenatore. Che bilancio fa della sua esperienza nel continente oceanico?
L’Australia per me era un sogno, c’ero già stato nel lontano 1980 con la nazionale juniores e mi aveva fatto una grandissima impressione. A fine carriera, dopo il Verona, decisi di giocare in Australia e realizzare il mio sogno. Andai a Sidney, nel Marconi. Purtroppo la mia avventura da calciatore durò solo tre mesi, perché all’epoca non c’era la sentenza Bosman e il Verona chiedeva al Marconi di essere pagato. La società australiana non poteva permettersi quella cifra, e così mi propose di allenare. Accettai l’offerta e iniziai la mia avventura da allenatore, che poi mi portò a vivere in Australia per tanti anni. In questo paese ho anche conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie, una donna inglese con cui in seguito siamo tornati in Italia.
Dopo la parentesi italiana, nel 2007 sono nuovamente tornato in Australia con la Milan Academy. E’ stata un’esperienza bellissima, dove ho potuto insegnare calcio a tanti ragazzi di etnie diverse conoscendo nuove culture. Un percorso che mi ha aiutato tantissimo a crescere come allenatore, e grazie al quale sono riuscito anche a perfezionare il mio inglese.
Di cosa si occupa in questo momento?
Nel novembre 2019 sono tornato in italia, e purtroppo tre mesi dopo è arrivato il Covid che ha bloccato tutto. Attualmente vivo ad Alessandria dove ho una cascina di famiglia, abbiamo ristrutturato una parte della cascina per realizzare un Bed and Breakfast. Ho il progetto di creare un’ azienda agricola e vorrei avviare anche un progetto sportivo. Quando è possibile alleno i ragazzi a cui cerco di trasmettere tutte le conoscenze che possiedo. Ho il patentino Uefa Pro e ho voglia di rimettermi in gioco.
Cosa ne pensa della SuperLega?
E’ la morte del calcio. Sarebbe uno scandalo cancellare con uno colpo di spugna tradizioni che durano da decenni. Bisogna avere rispetto per i tifosi che vivono di passioni, di gioie e di dolori. Purtroppo ormai comanda il Dio denaro, ma questa volta stiamo andando davvero oltre.
